A Napoleone III, Imperatore dei francesi, dalla
prigione di Mazas, 14 febbraio 1858.
Le deposizioni ch’io feci contro me medesimo in
questo processo politico, mosso in occasione dell’attentato del 14 gennaio,
sono sufficienti per mandarmi a morte; e la soffrirò senza domandar grazia, si perché io non mi umilierò giammai
dinanzi a colui, che uccise la libertà nascente dell’infelice mia patria, e si
perché nello stato, in cui mi trovo, la morte è per me un benefizio.
Presso alla fine della mia carriera, io voglio
nondimeno tentare un ultimo sforzo, per venire in soccorso all’Italia, la cui
indipendenza mi fece fino a quest’oggi sfidare tutti i pericoli, affrontare tutti i sacrifizi. Essa fu l’oggetto costante
di tutte le mie affezioni; ed è quest’ultimo pensiero, ch’io voglio deporre
nelle parole che rivolgo a Vostra Maestà.
Per mantenere l’equilibrio presente
dell’Europa, è d’uopo rendere l’Italia indipendente, o restringere le catene,
sotto di cui l’Austria la tiene in servaggio. Domando io forse per la sua
liberazione, che il sangue dei Francesi si sparga per gl'italiani? No, io non
vado fin là. L’Italia domanda, che la Francia non intervenga contro di lei;
domanda alla Francia che non permetta all’Alemagna di sostenere l’Austria nelle
lotte, che stanno forse tra breve per impegnarsi. Ora è appunto ciò, che Vostra
Maestà può fare, quando voglia. Da questa volontà dipendono il benessere o le
sciagure della mia patria, la vita o la morte di una nazione, a cui l’Europa va
in gran parte debitrice della sua civiltà.Tale è la preghiera, che dal mio carcere oso
dirigere a Vostra Maestà, non disperando che la mia debole voce sia intesa. Io
scongiuro Vostra Maestà di rendere alla mia patria l’indipendenza, che i suoi figli hanno perduta nel 1849, per colpa
appunto dei Francesi. Vostra Maestà si ricordi, che gl’italiani, tra i quali
era mio padre, versarono con gioia il loro sangue per Napoleone il Grande, dovunque piacque a lui di guidarli; si ricordi,
che gli furono fedeli sino alla sua caduta; si ricordi, che la tranquillità
dell’Europa e quella di Vostra Maestà saranno una chimera, fintantoché l’Italia non sarà indipendente. V. M. non
respinga la voce suprema di un patriota sui gradini del patibolo: liberi la mia
patria; e le benedizioni di 25 milioni di cittadini lo seguiteranno nella
posterità.
Felice Orsini (1819-1858), patriota romagnolo, morì
giustiziato a Parigi quattro settimane dopo aver scritto questa
lettera-testamento a Napoleone III.
Il 14 gennaio del 1858 l'Orsini aveva infatti compiuto un attentato, fallito, all’Imperatore
francese, al quale non aveva mai perdonato la caduta della Repubblica Romana del 1849 di cui egli era stato, al fianco
del Mazzini, uno dei protagonisti.
Una vendetta covata per quasi dieci anni; un
progetto, quello di eliminare Napoleone III - che Orsini considerava il principale responsabile della fine del sogno
repubblicano - preparato dal patriota senza l’aiuto di Giuseppe Mazzini, dal quale si allontanò per insanabili divergenze
politiche.
Tuttavia, proprio perché fallì miseramente, l’attentato
all’Imperatore francese contribuì, in un certo
senso, alla causa italiana. Le parole dell’Orsini infatti, divenute
famose grazie alla pubblicazione della lettera, pochi mesi dopo spinsero
Napoleone III e il conte di Cavour verso i famosi accordi di Plombières.
Insomma, un destino crudele quello del patriota e rivoluzionario romagnolo, che
morì senza sapere di aver avuto il merito, grazie alla sua “penna”, di spingere
i francesi a schierarsi al fianco del Piemonte nella seconda guerra
d’indipendenza italiana.
La figura dell’Orsini è oggi nota
proprio per il tentativo di attentato a Napoleone III,
nonché per l’arma utilizzata e da lui inventata: le famose bombe all’Orsini,
piene di chiodi e frammenti di metallo che rendevano questi ordigni decisamente
“adatti” agli attentati di stampo terroristico-rivoluzionario.
Molto meno conosciute sono invece
le sue Memorie politiche, che videro le stampe per la prima volta nel
1858. L’opera era apparsa in prima edizione l’anno precedente, in una
versione inglese decisamente più scarna e meno interessante rispetto a quella
italiana. Quest’ultima fu infatti radicalmente rivista e ampliata dall’autore.
Più azzeccato invece fu il titolo dell’edizione stampata a Edimburgo con i tipi di T. Constable: “Memoirs and adventure of Felice Orsini”. Quella dell’Orsini fu infatti una vita decisamente
avventurosa, travagliata e ricca di “colpi di scena”.
Ci sono alcuni libri che rapiscono
il lettore, che lo prendono in ostaggio. Per gli amanti della memorialistica,
soprattutto carceraria, questo è il caso! Il libro del rivoluzionario romagnolo
è avvincente, scritto con uno stile piacevole. Un tessuto narrativo pensato con
cura. Una lettura affascinante e mai banale, che scorre tra ricordi
autobiografici e accadimenti di interesse storico-politico. Appassionanti i
capitoli dedicati alla rocambolesca fuga dell’autore dal carcere austriaco di
San Giorgio a Mantova, dove venne rinchiuso dopo l’arresto in Ungheria avvenuto
nel dicembre del ’54. L’evasione da una fortezza che rappresentava il simbolo
della potenza austriaca nel Lombardo-Veneto, dove peraltro trovarono il
capestro in quegli stessi anni i martiri di Belfiore, fece grande
scalpore all’epoca.
La prima edizione italiana
dell’opera andò alle stampe a Torino nel 1858, con i tipi di
Degiorgis. Il libro vide poi innumerevoli edizioni successive,
tutte aumentate da una interessantissima appendice di Ausonio Franchi
(pseudonimo di Cristoforo Bonavino, noto scrittore e teologo
genovese).
La ristampa è oggi acquistabile presso i principali online
store e disponibile sul web anche in versione gratuita per la lettura. Buona lettura,
Cristiano Morucci