Visualizzazione post con etichetta TESTIMONI DEL RISORGIMENTO: invito alla lettura. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta TESTIMONI DEL RISORGIMENTO: invito alla lettura. Mostra tutti i post

28 maggio 2020

Giuseppe Bandi e i “suoi” Mille…da Genova a Capua: un capolavoro della memorialistica garibaldina

"Arrivai in Genova, con una gran pena nel cuore. Alla stazione di Busalla, un impiegato della ferrovia aveva detto a voce alta : «Stasera parte Garibaldi.»
— Parte stasera ! — ripetei tra me e me. — Bella sarebbe, per Dio ! che non giungessi in tempo — pensavo — sarebbe bella, e non canzono!  
E nella smania che mi prese, avrei voluto dire al macchinista: frusta ì cavalli, e ti manderò in regalo un pezzo di Sicilia!
Quelle poche miglia mi parvero lunghe cento volte tanto, e invidiavo le ali agli uccelli. 
Finalmente arrivammo. Non era per anco ben fermo il treno, e io apersi lo sportello e saltai giù col mio bianco fagottino in mano, infischiandomi delle guardie che gridavano a più non posso. 
Volevo andarmene diritto alla villa Spinola, ma una voce mi diceva: e se Garibaldi fosse già nel porto o fosse in qualche punto della spiaggia lontano di là, o fosse magari a bordo ? Andai di corsa in piazza Carlo Felice, e là in fondo, mi feci alla bottega d'un barbiere romano che si chiamava Mantinenti, uomo conosciutissimo dai familiari di Garibaldi, e quivi dimandai: 
— Ma è partito il generale? 
— Non ancora, sor tenente. 
— Quando parte? 
— Non si aa.... 
— Ma è sempre alla villa? 
— Sissignore. 
Mi volevo permettere il lusso d'una vettura di piazza ma il prezzo che mi chiesero mi disanimò. Era proprio il caso di dire: quando non ce n'è, quare conturbas me?  Rammentando allora di essere ufficiale di fanteria, e che il buon fantaccino dee marciare allegramente, pigliai con lieto animo la strada, e in un baleno giunsi alla villa. Avvicinandomi alla porta per suonare il campanello, udii un concento di voci festose, misto alle gioconde note del pianoforte. 
Suonai, mi fu aperto e salii su. Garibaldi era seduto a mensa con il figlio Menotti, col Vecchi, con Fruscianti, con Nullo e due altri che non rammento; una signora, che era la governante del padron di casa, era seduta al pianoforte e suonava l'inno di Mameli. La sala era tutta adorna di festoni di lauro, la mensa era piena di fiori, e vi si vedeva nel mezzo un bel trofeo, sormontato da una bomba, tutta irrugginita, su cui si leggeva scritto: «Un bacio della Francia all'Italia!».
La mia comparsa fu salutata con un grido dagli amici, e quell’ottimo uomo del generale mi fé cenno d' avvicinarmi a lui, e porgendomi un bicchiere colmo di vino d'Orvieto, mi disse: 
— Bevete anche voi alla buona fortuna d'Italia. Undici anni or sono, vedemmo in questo giorno, sotto le mura di Roma, le spalle dei francesi. — 
Era la sera del 30 d’aprile…”.

(G. Bandi, I Mille, da Genova a Capua - cap. VII)

Qualche tempo fa un amico mi chiese quale fosse a mio avviso il più piacevole e interessante testo di memorialistica garibaldina. Rammento che, dopo aver sbarrato gli occhi, risposi di getto, senza riflettere, non concedendomi neppure il tempo di deglutire: I Mille… da Genova a Capua!
L’opera di Giuseppe Bandi (Gavorrano–Grosseto, 15 luglio 1834 – Livorno, 1° luglio 1894) rappresenta senz’altro, per scorrevolezza della scrittura, chiarezza espositiva e ricchezza di contenuti di indubbia valenza storica, il libro più interessante tra quelli scritti dai testimoni al seguito di Garibaldi nella guerra del 1860. Un libro che non ha nulla da invidiare ai ricordi dell’Abba, autore del più famoso e più letto testo di memorialistica garibaldina, Da Quarto al Volturno.
I Mille è un’opera pregevole. Un capolavoro che definirei assoluto, non solo nel panorama di quella letteratura di testimonianza di cui è ricco il secolo del nostro Risorgimento. La piacevolezza della scrittura del Bandi, la capacità dell’autore di raccontare la storia come fosse un romanzo - tema a me assai caro - non deve tuttavia sorprendere. Giuseppe Bandi infatti era un eccellente giornalista che, prima di arruolarsi nell'esercito, combatteva le sue battaglie a colpi d’inchiostro. Un uomo rispettato e un ardente patriota, apprezzato e amato da amici e colleghi. Non solo Garibaldi lo scelse come segretario personale, ma addirittura lo stesso Giuseppe Mazzini strinse con lui un rapporto di profonda intimità, a dimostrazione di quanto le sue virtù e la sua dedizione alla causa italiana fossero riconosciute da tutti. Tuttavia, furono proprio i suoi scritti, ricchi di sentimenti patriottici e di idee apertamente liberali a spalancargli, nel 1858, le porte della prigione nel forte Il Falcone a Portoferraio, dove rimase dietro le sbarre di una cella fino all'aprile dell’anno seguente. Uscito dal carcere, indossò la divisa militare; combatté valorosamente nella campagna contro l’Austria del ’59, per poi arruolarsi tra i Mille di Garibaldi, al fianco del quale si oppose al Borbone fino alla capitolazione del trono di Francesco II. Concluse l’epopea garibaldina con il grado di maggiore; nomina conferitagli direttamente da Garibaldi grazie al coraggio che egli dimostrò in combattimento e alle due gravi ferite in pieno petto che subì nello scontro a viso aperto contro il contingente borbonico a Calatafimi. Ristabilitosi in salute raggiunse il generale nizzardo a Palermo, per poi prendere parte e distinguersi valorosamente nella vittoriosa battaglia di Milazzo.
La battaglia di Custoza del ’66 fu l’ultima apparizione in uniforme del maggiore Bandi che, dopo varie vicissitudini, si ritirò dalla vita militare per stringere il pennino e dedicarsi completamente alla sua profonda passione: il giornalismo. Purtroppo però fu proprio questa passione, l’ardore con cui combatteva le sue battaglie d’inchiostro, a ucciderlo. Il primo luglio del 1894 un anarchico, certo Oreste Lucchesi, lo pugnalò a morte proprio per colpa degli scritti anti-anarchici pubblicati con insistenza dal Bandi in quel periodo.
La prima edizione dell’opera andò alle stampe a Firenze nel 1903, otto anni dopo la scomparsa del patriota e scrittore toscano, con i tipi di Salani. 
La ristampa è oggi acquistabile presso i principali online store. L’edizione originale è invece facilmente reperibile sul web in versione gratuita per la lettura.

Buona lettura, Cristiano Morucci

24 gennaio 2019

La vita avventurosa di un mazziniano “pentito”: le “Memorie politiche di Felice Orsini scritte da lui medesimo per la gioventù italiana”


 


A Napoleone III, Imperatore dei francesi, dalla prigione di Mazas, 14 febbraio 1858.
 
Le deposizioni ch’io feci contro me medesimo in questo processo politico, mosso in occasione dell’attentato del 14 gennaio, sono sufficienti per mandarmi a morte; e la soffrirò senza domandar grazia, si perché io non mi umilierò giammai dinanzi a colui, che uccise la libertà nascente dell’infelice mia patria, e si perché nello stato, in cui mi trovo, la morte è per me un benefizio. Presso alla fine della mia carriera, io voglio nondimeno tentare un ultimo sforzo, per venire in soccorso all’Italia, la cui indipendenza mi fece fino a quest’oggi sfidare tutti i pericoli, affrontare tutti i sacrifizi. Essa fu l’oggetto costante di tutte le mie affezioni; ed è quest’ultimo pensiero, ch’io voglio deporre nelle parole che rivolgo a Vostra Maestà.
Per mantenere l’equilibrio presente dell’Europa, è d’uopo rendere l’Italia indipendente, o restringere le catene, sotto di cui l’Austria la tiene in servaggio. Domando io forse per la sua liberazione, che il sangue dei Francesi si sparga per gl'italiani? No, io non vado fin là. L’Italia domanda, che la Francia non intervenga contro di lei; domanda alla Francia che non permetta all’Alemagna di sostenere l’Austria nelle lotte, che stanno forse tra breve per impegnarsi. Ora è appunto ciò, che Vostra Maestà può fare, quando voglia. Da questa volontà dipendono il benessere o le sciagure della mia patria, la vita o la morte di una nazione, a cui l’Europa va in gran parte debitrice della sua civiltà.
Tale è la preghiera, che dal mio carcere oso dirigere a Vostra Maestà, non disperando che la mia debole voce sia intesa. Io scongiuro Vostra Maestà di rendere alla mia patria l’indipendenza, che i suoi figli hanno perduta nel 1849, per colpa appunto dei Francesi. Vostra Maestà si ricordi, che gl’italiani, tra i quali era mio padre, versarono con gioia il loro sangue per Napoleone il Grande, dovunque piacque a lui di guidarli; si ricordi, che gli furono fedeli sino alla sua caduta; si ricordi, che la tranquillità dell’Europa e quella di Vostra Maestà saranno una chimera, fintantoché l’Italia non sarà indipendente. V. M. non respinga la voce suprema di un patriota sui gradini del patibolo: liberi la mia patria; e le benedizioni di 25 milioni di cittadini lo seguiteranno nella posterità. 



Felice Orsini (1819-1858), patriota romagnolo, morì giustiziato a Parigi quattro settimane dopo aver scritto questa lettera-testamento a Napoleone III.

Il 14 gennaio del 1858 l'Orsini aveva infatti compiuto un attentato, fallito, all’Imperatore francese, al quale non aveva mai perdonato la caduta della Repubblica Romana del 1849 di cui egli era stato, al fianco del Mazzini, uno dei protagonisti.
Una vendetta covata per quasi dieci anni; un progetto, quello di eliminare Napoleone III - che Orsini considerava il principale responsabile della fine del sogno repubblicano - preparato dal patriota senza l’aiuto di Giuseppe Mazzini, dal quale si allontanò per insanabili divergenze politiche.
Tuttavia, proprio perché fallì miseramente, l’attentato all’Imperatore francese contribuì, in un certo senso, alla causa italiana. Le parole dell’Orsini infatti, divenute famose grazie alla pubblicazione della lettera, pochi mesi dopo spinsero Napoleone III e il conte di Cavour verso i famosi accordi di Plombières. Insomma, un destino crudele quello del patriota e rivoluzionario romagnolo, che morì senza sapere di aver avuto il merito, grazie alla sua “penna”, di spingere i francesi a schierarsi al fianco del Piemonte nella seconda guerra d’indipendenza italiana.

La figura dell’Orsini è oggi nota proprio per il tentativo di attentato a Napoleone III, nonché per l’arma utilizzata e da lui inventata: le famose bombe all’Orsini, piene di chiodi e frammenti di metallo che rendevano questi ordigni decisamente “adatti” agli attentati di stampo terroristico-rivoluzionario.
Molto meno conosciute sono invece le sue Memorie politiche, che videro le stampe per la prima volta nel 1858. L’opera era apparsa in prima edizione l’anno precedente, in una versione inglese decisamente più scarna e meno interessante rispetto a quella italiana. Quest’ultima fu infatti radicalmente rivista e ampliata dall’autore. Più azzeccato invece fu il titolo dell’edizione stampata a Edimburgo con i tipi di T. Constable: Memoirs and adventure of Felice Orsini”. Quella dell’Orsini fu infatti una vita decisamente avventurosa, travagliata e ricca di “colpi di scena”.

Ci sono alcuni libri che rapiscono il lettore, che lo prendono in ostaggio. Per gli amanti della memorialistica, soprattutto carceraria, questo è il caso! Il libro del rivoluzionario romagnolo è avvincente, scritto con uno stile piacevole. Un tessuto narrativo pensato con cura. Una lettura affascinante e mai banale, che scorre tra ricordi autobiografici e accadimenti di interesse storico-politico. Appassionanti i capitoli dedicati alla rocambolesca fuga dell’autore dal carcere austriaco di San Giorgio a Mantova, dove venne rinchiuso dopo l’arresto in Ungheria avvenuto nel dicembre del ’54. L’evasione da una fortezza che rappresentava il simbolo della potenza austriaca nel Lombardo-Veneto, dove peraltro trovarono il capestro in quegli stessi anni i martiri di Belfiore, fece grande scalpore all’epoca.
La prima edizione italiana dell’opera andò alle stampe a Torino nel 1858, con i tipi di Degiorgis. Il libro vide poi innumerevoli edizioni successive, tutte aumentate da una interessantissima appendice di Ausonio Franchi (pseudonimo di Cristoforo Bonavino, noto scrittore e teologo genovese).

La ristampa è oggi acquistabile presso i principali online store e disponibile sul web anche in versione gratuita per la lettura. Buona lettura,  
Cristiano Morucci

4 novembre 2018

Invito alla lettura. Le "impressioni e ricordi" di Grazia Pierantoni Mancini


“Cesarina, la mia piccola sorella, è morta fra le mie braccia…Ho voluto lavarla…ricomporla io stessa: parve addormentata appena le ebbi chiusi per sempre i grandi occhi cerulei. I capelli finissimi le formavano attorno al visetto bianco una cornice di oro pallido…Mia madre già prima della fine era stata condotta altrove…: poverina, innanzi i trent’anni ha messo al mondo dieci figli e questa è la quarta bambina che le vien tolta dalla morte…”.

Cominciano così le memorie di Grazia Pierantoni Mancini (1841-1915), con il cuore, in punta di piedi. Inizia così il suo piacevolissimo diario, con il ricordo della sorellina di due anni, la cui morte lasciò una ferita insanabile nell’anima della scrittrice.
Prima figlia di Pasquale Stanislao Mancini e Laura Beatrice Oliva, Grazia, all’età di otto anni, si trasferì da Napoli a Torino, per raggiungere il papà, esule nella capitale piemontese a seguito delle persecuzioni della polizia borbonica dopo i moti rivoluzionari del ’48. Grazina, come la chiamava il padre, con un linguaggio semplice e accattivante ripercorre, in un intreccio ben congeniato di memorie storiche e ricordi autobiografici, le complesse vicende di uno dei decenni più affascinanti dell’Ottocento (1856 -1864).
Stanislao Mancini, che diventerà figura di spicco della politica italiana di fine secolo, all’epoca illustre professore di Diritto Internazionale, sempre pronto a combattere le battaglie per il sogno unitario, era in quegli anni una figura di riferimento per tutti gli esuli napoletani a Torino. Casa Mancini era così un vero e proprio luogo di ritrovo, di aggregazione: un salotto culturale e politico dove la scrittrice ebbe modo di conoscere e frequentare molti protagonisti del nostro Risorgimento. Uomini come Carlo Poerio, Silvio Spaventa e Luigi Settembrini, che per l’acerba poetessa rappresentavano “…eroi sconosciuti da romanzo, e li amavo e veneravo come si adorano i santi”.  A Torino Grazia frequentò l’Istituto femminile Elliot, dove ebbe la fortuna di conoscere e diventare allieva di Francesco De Sanctis, con cui mantenne anche un rapporto epistolare, dopo l’esilio forzato che costrinse il “suo” professore a Zurigo.
Un libro testimonianza quello della Mancini in cui, tra le pagine, è possibile respirare l’atmosfera di quel periodo e cogliere i sentimenti, le profonde emozioni che albergavano in chi ebbe la fortuna di vivere in quegli anni.  Uno spaccato di vita del nostro Risorgimento, in cui vicende famigliari e aneddoti storici si fondono con sorprendente armonia; una scrittura piacevolmente timida, da cui tuttavia traspare tutto l’orgoglio e la nostalgia dell’autrice per gli anni della sua giovinezza, ricchi di passione e di ideali, vissuti intensamente, con profonda partecipazione dalla scrittrice.
Grazia Pierantoni-Mancini, nello scrivere quest’opera, sembra abbia seguito i consigli del suo illustre professore:

“ …ho letto i tuoi versi, ….un’anima nobile scrive non per aver fama ed onori; scrive per dovere, per esercitare le sue facoltà; scrive per bisogno, per dare uscita alle sue forze rigogliose.”

Il libro uscì in prima edizione a puntate nella rivista “Nuova Antologia”, tra il febbraio e l’agosto del 1907, con il titolo “Giornale di una giovinetta”. L’opera andò poi alle stampe nella versione definitiva l’anno successivo (Milano, L.F. Cogliati, 1908); la ristampa è oggi acquistabile presso i principali online store.

Buona lettura. 
Cristiano Morucci.

Invito alla lettura. "Memorie e scritti" di Luigi La Vista: quando Napoli piange i suoi martiri!

“…E tra noi sorgeva, ammirato da tutti, da nessuno invidiato, Luigi La Vista. Quando egli leggeva o parlava, i compagni lo ascoltavano quasi con devozione; un silenzio profondo si faceva nella scuola, ed il maestro, immobile sulla cattedra, lo guardava con una compiacenza che non poteva nascondere. La sua parola armoniosa, chiara, eloquente manifestava un intelletto pronto a salire nelle più alte speculazioni della filosofia, innamorato del bello coll’ardore d’un poeta. E la bontà dell’animo suo, che traspariva dagli occhi, dal volto, da tutto, dava ai suoi pensieri un certo affettuoso entusiasmo, che ci rapiva prepotentemente…”



Questo il ritratto di Luigi La Vista (1826–1848) che Pasquale Villari dipinge con singolare maestria nelle pagine della splendida prefazione alle “Memorie e scritti” del suo compagno di scuola. Peraltro, una meravigliosa e interessantissima prefazione di oltre quaranta pagine, da considerarsi a tutti gli effetti un'“opera nell'opera”. Senz’altro meritevole di attenta lettura.

Luigi La Vista morì, poco più che ventenne, il 15 maggio del 1848, in un giorno funesto nella storia di Napoli. Venne ucciso, trucidato, dai mercenari svizzeri al servizio del Borbone, di fronte agli occhi del padre. Luigi, giovane martire della libertà italiana, rappresenta un simbolo, l’emblema del sacrificio che i napoletani hanno offerto alla storia per realizzare il sogno unitario italiano. Napoli sacrificò molti figli per costruire il nostro presente, e non esistono martiri di prima o di seconda classe; tuttavia, esistono uomini la cui morte prematura ha sottratto ai posteri la possibilità di apprezzarne l’intelletto e goderne l'opera. Ed è grazie alla memoria del passato che abbiamo la possibilità di rileggere correttamente il nostro presente.

Luigi La Vista, primo discepolo di Francesco De Sanctis, se non fosse stato defraudato del proprio futuro, sarebbe certamente diventato uno dei più brillanti pensatori e scrittori del nostro Risorgimento; ma Luigi, così scrisse il suo illustre maestro, “…conscio di sua futura grandezza, non dubitò di dare alla patria più che la vita il suo avvenire.” Le pagine di quest’opera, composte dall’autore nei ritagli di tempo, magari tra una lezione e l’altra, ci conducono, tra genio e dolcezza, tra sapienza e sentimenti, nella mente e nel cuore dell’acerbo patriota. Una raccolta di scritti che, pagina dopo pagina, mostra una maturità letteraria e una profondità di pensiero decisamente eccezionali per uno scrittore di soli vent'anni.  

Gli scritti del La Vista, dopo la sua morte, passarono di mano in mano, nascosti dai suoi amici e compagni per paura che la polizia borbonica distruggesse l’ultimo avanzo della sua vittima. Pasquale Villari, in esilio a Firenze, riuscì, molti anni più tardi, a entrarne in possesso e, senza esitazione, si adoperò per raccoglierli, ordinarli e pubblicarli.

Il volume andò alle stampe a Firenze nel 1863, con i tipi Felice Le Monnier.

La ristampa è oggi acquistabile presso i principali online store e disponibile sul web anche in versione gratuita.

Buona lettura,

Cristiano Morucci

6 settembre 2018

Invito alla lettura. Un ammiraglio tra sconfitte e rivincite morali del nostro Risorgimento


... prudenza e audacia Ammiraglio, siamo alla crisi. Faccia quanto può per far scoppiare il moto in Napoli prima dellarrivo di Garibaldi, se poi questi arriva prima di questo, prenda senza esitazione il comando di tutte le forze navali tanto del continente quanto della Sicilia; andando daccordo col Generale; ma anche senza il suo consenso se ciò è necessario....

Camillo Benso, Conte di Cavour

Tra i tanti personaggi parzialmente sottovalutati dai libri di storia, che hanno invece lasciato la loro impronta, più o meno profonda, sul sentiero che ha portato lItalia a realizzare il sogno risorgimentale, ce n’è uno che va considerato a tutti gli effetti il braccio disteso di Cavour sul Mediterraneo durante tutta la campagna contro il Borbone del 1860: l'Ammiraglio Carlo Pellion di Persano (1806-1883), noto soprattutto per aver partecipato, come comandante in capo della flotta regia durante la terza guerra d’indipendenza, alla disastrosa sconfitta che la marina del Regno dItalia subì a Lissa nel luglio del 1866 contro la Kriegsmarine, la marina da guerra dellImpero austriaco.
Persano invece viene solo marginalmente legato alla rivoluzione siciliana e all'epopea garibaldina del 60, laddove ebbe indiscutibilmente un ruolo di primo piano dopo la partenza dei garibaldini dallo scoglio di Quarto.

Dopo la battaglia di Lissa, Persano, allora Senatore del Regno dItalia, venne accusato per la clamorosa debacle subita dalla flotta italiana nellAdriatico, tanto da essere condannato, nel gennaio del 1867, dallAlta Corte di Giustizia, non solo alla perdita del grado e delle decorazioni ma anche a quella della pensione. Si trattò naturalmente anche di un grave danno economico e di immagine per lex Ammiraglio, tenendo conto del fatto che non fu né lunico né il principale responsabile della sconfitta! Non è necessario dunque essere troppo maliziosi per supporre che il pessimo trattamento e lassoluta irriconoscenza subiti lo spinsero a pubblicare, pochi anni dopo, il suo interessantissimo diario, nel quale rivela molti dei retroscena delle trame cavouriane e dellazione dei Comitati dOrdine e dAzione a Napoli nellestate del 60.

Le rivelazioni del comandante vercellese portano infatti alla luce molti particolari della strategia messa in campo ai danni di Francesco II da parte del conte di Cavour che, con la complicità di alcuni personaggi di corte molto vicini allignaro Re di Napoli, tentò di conquistare la capitale meridionale prima dellarrivo di Garibaldi e del suo esercito di volontari. Persano decise di rendere pubblico il suo diario solo in seguito alla pubblicazione degli scritti di Agostino Bertani e dellepistolario di Giuseppe La Farina, sostenendo - in un tentativo alquanto maldestro di giustificare la sua opera - che non avrebbe potuto fare diversamente: insomma, le sue memorie erano scritte non per vendetta, ma come atto dovuto verso la Storia. Tuttavia la verità è un po diversa: lAmmiraglio volle ripagare con la stessa moneta un Paese che lo aveva messo alla porta senza pensarci due volte, irriconoscente dei servigi da lui resi alla patria.

Il diario di Carlo Pellion di Persano è dunque unopera certamente priva di particolare valore stilistico, scritta in modo semplice, diretto, essenziale, ma che riveste un'importanza documentaria fondamentale:una lettura da non perdere per gli appassionati del nostro Risorgimento.

Il libro venne pubblicato per la prima volta nel 1870. Ledizione definitiva, rivista e ampliata dallautore, uscì dieci anni più tardi (Torino, Roux e Favale 1880).

La ristampa è oggi acquistabile presso i principali online store, e disponibile sul web anche in versione gratuita per la lettura.

Buona lettura, Cristiano Morucci







Testimoni del Risorgimento: invito alla lettura

"Testimoni del Risorgimento: invito alla lettura" è una nuova sezione del sito del Comitato di Napoli dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano, proposta e curata dal socio Cristiano Morucci. Un invito alla lettura delle testimonianze pubblicate da quanti, uomini e donne, hanno vissuto il Risorgimento italiano; un invito a ripercorrere vicende umane e accadimenti di quei decenni; un invito a riascoltare le voci di quel tempo, lasciando in silenzio il vociare recente di interpretazioni parziali e infondate.